giovedì, giugno 14, 2007

UNA SANA E SERIA RIFLESSIONE:
Intercettazioni, Unipol e Wall Street Journal
Il triste primato di questa politica
di Angelo Panebianco
Mentre il mondo politico si accapiglia sui contenuti delle intercettazioni per la vicenda Unipol- Bnl di due anni fa e i diessini reagiscono alla «ferita di immagine» spingendo per una nuova legge sulle intercettazioni che metta fine ai consueti giochi al massacro (magari ora la legge, da sempre giustamente invocata e mai varata, verrà fuori davvero, dal momento che si è constatato che a rimetterci le penne non è più solo la destra), conviene non perdere di vista il quadro d’insieme. Il quadro d’insieme è quello di un Paese nel quale la politica, pur debole come è, pur malamente conciata come è (o forse proprio perché così debole e malamente conciata), ha mantenuto — in un mondo completamente cambiato — abitudini da Prima Repubblica, non è riuscita, nei quindici anni che ci separano dalla fine dell’era democristiana, a fare i necessari passi indietro rispetto al mercato e al sistema delle imprese.
Può essere utile, per non perdere di vista il quadro d’insieme, guardare a questa e ad altre vicende con gli occhi «degli altri». Gli osservatori internazionali, normalmente, ne sanno molto meno dei sofisticati analisti italiani ma proprio per questo, non attardandosi sui dettagli, spesso riescono a cogliere l’essenza del problema. Il Wall Street Journal di ieri riportava un articolo sulla vicenda Unipol-Bnl e sul ruolo dei dirigenti diessini quale appare dalle intercettazioni, e la metteva in relazione con altre vicende che hanno caratterizzato l’intera esperienza di governo del centrosinistra: dal (maldestro) tentativo di rimettere Telecom sotto controllo statale al pesante intervento governativo nella vicenda Abertis/ Autostrade.
Episodi molto diversi fra loro ma, lascia intendere il Wall Street Journal, con un denominatore comune: l’incapacità della politica di rinunciare a ciò che resta del suo antico controllo sul capitalismo italiano. Non si tratta, in realtà, di dirigismo. Il dirigismo, ancorché sempre deprecabile dal punto di vista liberale, può essere tuttavia una cosa seria e anche, qualche volta, assai efficace. Ma la politica italiana è troppo debole per avere vere qualità e capacità dirigistiche. Si tratta di altro, si tratta della versione casereccia del cosiddetto «primato d ella politica» . Un’espressione della quale conviene diffidare sempre, e soprattutto quando a parlarne sono i politici: essi intendono per lo più dire che spetta loro comandare in tutti i campi, anche quelli extrapolitici. Una espressione della quale, massimamente, si deve diffidare in Italia.
Essendo qui assai deficitaria la capacità della politica di perseguire finalità generali, «primato della politica» finisce per essere solo un sinonimo di controllo politico esercitato su ingenti quantità di posti e risorse. Ovunque si commettono errori ma il problema italiano è la ridotta capacità di imparare dai propri errori e di introdurre, per conseguenza, serie correzioni di rotta. Quello che gli osservatori internazionali registrano è in realtà un circolo vizioso: la politica italiana è debole perché screditata agli occhi di molti. Ed è screditata perché giudicata abile a impicciarsi in ogni genere di affari ma incapace di perseguire con rigore e serietà mete generali. La debolezza, a sua volta, rafforza la tentazione della politica di occupare tutti gli spazi disponibili. Il discredito, di conseguenza, continua a crescere. E non si vedono in giro dei Blair o dei Sarkozy in grado di spezzare il circolo vizioso.
Tratto dal Corriere della Sera

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